2009, il mondo impazzisce per l’operazione della US Navy che ha portato in salvo il controverso capitano Phillips, quel tizio un po’ stronzo della , poco simpatico al suo equipaggio, che poi sarà interpretato in chiave eroica da Tom Hanks nell’omonimo film. A differenza della pellicola candidata all’Oscar, la vera storia è l’impresa quasi impossibile portata avanti da tre cecchini che hanno sparato in simultanea, nel buio e in condizioni ambientali complicate, alla testa di tre pirati somali. Una presa di ostaggi che si è risolta in modo eccellente, con il plauso di Obama che aveva dato il via libera alla risoluzione mortale.
Nel 1976 successe qualcosa di molto simile, forse ancora più incredibile, complesso e leggendario: un’operazione che fu allo stesso tempo un successo e un disastro, spazzata immediatamente sotto il tappeto della storia finché quaranta anni dopo il governo francese si è rilassato abbastanza da permetterle di riemerge alla luce.
Parlo dell’operazione Loyada, una presa di ostaggi (30 bambini, un autista militare e una assistente sociale) che avvenne nel Djibouti, ultima colonia francese in Africa. Un commando di quattro terroristi di un locale gruppo indipendentista, sequestrò un autobus scolastico che raccoglieva i figli dei dipendenti francesi del campo di aviazione fuori dalla città, con l’intenzione di chiedere un riscatto: l’immediata indipendenza.
L’intervento della Francia fu immediato: da Parigi volò in Africa un piccolo gruppo di uomini appartenenti a una realtà giovane ma che si stava facendo una solida e temibile reputazione tra le forze di sicurezza francesi: il GIGN.
Nato come gruppo di intervento ultra specializzato e formato, il GIGN aveva il compito di risolvere situazioni estreme che coinvolgevano ostaggi, ma all’epoca dei fatti ancora lavorava per creare un rapporto di fiducia con le altre istituzioni, poco propense ad accettare un corpo di élite dalle caratteristiche e privilegi così particolari. Quello che nel corso degli anni il GIGN dimostrò di avere, fu uno spirito di innovazione e un rigido codice morale che più volte nella vita del corpo, portarono drammi e gioia. Quello nel Djibouti fu per il GIGN il primo intervento al di fuori dei confini europei e rappresentò per molti aspetti, un battesimo dal gusto amaro che portò comunque il gruppo alla ribalta delle cronache.
Trattandosi di fatti poco noti in Italia, ho deciso di raccontare la storia nel modo più dettagliato possibile, quindi probabilmente sarà necessario prendersi le ferie per arrivare in fondo a questo post.
Mi sono documentata su vari libri e un film, alla fine trovate l’elenco e risorse aggiuntive per approfondire.

 

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L’operazione Loyada è stata a lungo una vicenda poco raccontata ma ben conosciuta negli ambienti della sicurezza francese, che per quasi quaranta anni ne ha favorito l’oblio, complice la rapida indifferenza della stampa. Eppure, tra le pieghe di questa storia, vi sono dettagli che l’hanno resa, nel tempo, una delle operazioni più complesse mai fatte da una unità di intervento occidentale e per i soccorritori francesi, una delle più drammatiche e difficili, almeno fino ai fatti di Algeri del 1994. Fu protagonista il GIGN, Groupe d’intervention de la Gendarmerie nationale, all’epoca ancora in una fase di consolidamento, realtà acerba e poco in vista all’opinione pubblica, non del tutto accettata dai colleghi della sicurezza sia agli Interni che alla Difesa. Al tempo, fin dalla fondazione avvenuta pochi anni prima e per parecchi anni a seguire, il capo della squadra GIGN1 (esisteva anche una squadra GIGN4, verranno fuse insieme nel 1977) era un operatore dalla solida reputazione ma con un difetto che pochi perdonavano: indossava gli occhiali da vista. Christian Prouteau scrive nelle sue memorie che il fatto di essere un tiratore scelto con gli occhiali, esperto di interventi ad alto rischio, gli aveva causato non poche battute e mancanze di fiducia. Con il tempo e con le operazioni dal profilo eccezionale che il GIGN porterà a casa, Prouteau e i suoi occhiali divennero quasi una leggenda, al pari della squadra intera che poteva vantare privilegi eccezionali, soprattutto in ambito operativo.
Prouteau comandava una squadra di 28 elementi, tutti agenti dall’alto profilo. Entrare nel GIGN non era questione da poco e anche i più preparati potevano venire respinti. Non si trattava solo di avere una preparazione fisica eccezionale per poter superare un training durissimo: la selezione seguiva standard innovativi che si delineavano grazie al supporto di figure come biologi o psichiatri. Negli anni Settanta nel GIGN si valutavano caratteristiche come la resistenza allo stress psicofisico e ai traumi che potevano essere causati dalle operazioni condotte. Il GIGN cercava uomini al massimo livello, in grado di capire che gli scenari in cui avrebbero operato, necessitavano quasi sempre di scelte estremamente importanti. Nell’operazione Loyada per esempio, gli uomini coinvolti si trovarono a prendere una decisione estrema, come quella di spezzare la catena di comando e operare secondo il loro giudizio, e la responsabilità morale di una neutralizzazione che richiedeva, senza possibilità alternative, la morte dei bersagli.

 

Christian Prouteau

 

La mattina del 3 febbraio del 1976, Prouteau si trova nella sede del comando GIGN a Maisons-Alford, nel pieno di un colloquio con il volto più famoso di TF1, il giornalista Jean-Claude Bourret. Si tratta di un colloquio necessario al GIGN, nato da scelte di carattere politico: il dirigente generale della Gendarmerie Nationale, Jean-Pierre Cochard, aveva deciso mesi prima che al GIGN serviva un contatto con la cittadinanza e soprattutto doveva mostrarsi, farsi conoscere meglio per avere il supporto dell’opinione pubblica francese, quasi completamente all’oscuro delle dinamiche del Gruppo o del suo ruolo all’interno dell’apparato di sicurezza.
Durante il colloquio squilla il telefono: c’è una crisi a Djibouti, serve l’immediato intervento del GIGN.
La macchina si mette immediatamente in moto, Prouteau convoca una riunione d’emergenza per fare il punto. Cosa è successo nel Djibouti? Alle 7,30 di quella mattina un autobus scolastico con circa 30 figli di funzionari francesi dell’aeronautica è stato sequestrato da un commando di quattro uomini del posto, armati di Sturmgewehr 44 (da ora MP44), pistole e di uno Sten. L’autobus è stato dirottato dall’aeroporto verso Djibouti-ville ma al momento non ci sono informazioni più precise. Questi dati vengono elaborati rapidamenti da Prouteau: dei 28 uomini a disposizione, ne sceglie otto, con lui nove. Due uomini per ogni terrorista, lui al comando, otto tra i migliori cecchini della squadra in grado di operare con la massima efficacia nel contesto urbano che si prospetta. Si chiamano François Rudent, Daniel Delafrenée, Etienne Laisney, Jacques Dufour, Pierre Reanud, Daniel Grandil, Norbert “Nono” Jeandenant e Ignace Wodecki.
Avranno a disposizione, tra l’equipaggio in dotazione che possono scegliere nelle operazioni, dei visori notturni Startron, fucili da cecchino FRF1, pistole d’ordinanza MAC50, radio Thomson.
Si parte in abiti civili per arrivare in città tenendo un profilo basso, favorito anche dall’estetica variegata che gli uomini del GIGN hanno il privilegio di poter scegliere. Per la maggior parte sono uomini dai capelli folti, a volte lunghi, non mancano le barbe generose e si presentano ai colleghi non di rado vestiti con t-shirt, jeans e scarpe da tennis. Partiranno proprio in questo modo, lasciando a casa l’abbigliamento tattico, come mimetica e berretti, che a giudicare dalle informazioni in loro possesso sarebbero inutili.
All’aeroporto di Parigi, il capitano dell’aviazione militare che deve portarli in Africa non sembra restare impressionato dal ruolo del GIGN e quando vede la squadra presentarsi con le valigie contenenti i fucili e il resto dell’equipaggiamento, si rifiuta di farli salire a bordo se non caricheranno in stiva. Gli uomini si scambiano uno sguardo: ovviamente non se ne parla. Se per il comandante dell’aereo è una questione di protocolli e sicurezza in volo, per il GIGN è una questione di vita e di morte, perché fattori da tenere sotto controllo, come la pressione e il cambio di temperatura in stiva, potrebbero danneggiare elementi dell’equipaggiamento. Alla fine serve una telefonata di Prouteau al Ministero degli Interni per smuovere lo stallo, dimostrativo delle difficoltà che il GIGN ancora andava a incontrare nei primi anni della sua esistenza. Il compromesso raggiunto è che i fucili viaggeranno in cabina, mentre il resto delle borse con ottiche, radio e visori, viaggeranno in stiva.
Nove ore di volo e nessun aggiornamento portano la squadra da Parigi a Djibouti-ville, dove all’atterraggio li attende il colonnello Samacari. Djibouti-ville è all’epoca la capitale del Territoir Français des Afars et des Issas e pullula di legionari del 2e REP e di uomini della Gendarmerie Nationale, in forze numerose a causa dei disordini che negli ultimi anni hanno causato non pochi problemi all’amministrazione coloniale. Il movimento per l’indipendenza del FLCS, il Fronte de Liberation de la Cote de Somalis opera illegalmente perseguendo l’indipendenza del Djibouti e le sue azioni rivoltose sono in larga parte appoggiate da realtà somale che considerano il Djibouti parte del loro territorio. La Somalia è proprio a due passi, un confine lunghissimo e ambiguo da cui passano traffici illeciti e uomini che ingrandiscono le fila del FLCS con le loro armi e la loro politica di strada. Un territorio, quello somalo, attualmente supportato in maniera discreta ma non troppo dall’Unione Sovietica, una presenza fantasma che contribuisce al radicarsi delle tensioni.

Il colonnello Samacari porta Prouteau in una saletta privata, dove li aspetta una mappa della regione. L’aggiornamento non è positivo: i quattro terroristi sono ben armati e l’autobus ha lasciato la città. Si trova in un’area desertica chiamata Loyada, a poche centinaia di metri dal confine somalo che presumibilmente voleva passare con gli ostaggi. Al posto di frontiera francese, avvisato dalla città, un gendarme dai riflessi pronti ha cercato di deviare la corsa del bus posizionando un camion di traverso, mentre degli uomini del 2e REP che si trovavano di pattuglia da quelle parti sono riusciti a buttare per terra delle strisce chiodate che hanno fatto definitivamente fermare il bus.
La zona della Loyada è un’area complicata, ma Prouteau lo capirà davvero solo di persona: a sinistra c’è un lunghissimo tratto di costa che degrada verso il mare, di fronte la frontiera somala, a destra uno sconfinato deserto che funge da border.
Prouteau è sconfortato dalle notizie ma rapido a fare i conti. Chiede immediatamente un passaggio per i magazzini militari: serve l’abbigliamento tattico che hanno lasciato a casa, non possono andare nel deserto in calzoncini e t-shirt. Il capitano precisa che gli ordini del comandante che gestisce la crisi sono quelli di portarli a riposare, ma la squadra quasi gli ride in faccia. Sono uomini addestrati ad operare in qualsiasi condizione, sono addestrati alla privazione del sonno e nove ore di aereo sono più che abbastanza per essere considerate riposo.
Si precipitano verso i magazzini, dove chi può rimedia una mimetica della giusta taglia, altri si arrangiano con i jeans e la camicia kaki, poi di nuovo tutti sul piccolo convoglio organizzato dal tenente Georges Kihel. Lasciano la città in modalità blackout, cioè a fari spenti, con l’unico riferimento delle luci rosse degli stop per quelli che seguono la jeep in testa.
Già il primo approccio con il deserto è sintomatico delle condizioni di questo ambiente così estraneo al gruppo; la notte nel deserto è totalmente buia e le auto procedono alla velocità massima di 10 km. Il terreno al di fuori della pista battuta è altamente insidioso e più di una volta rischiano di restare bloccati nelle dune quando, per la mancanza di visibilità, escono fuori dal tracciato della strada. Intorno a loro non c’è niente, niente per chilometri, ma si sente il mare a sinistra lungo la costa e il caldo è incredibilmente sempre opprimente, nonostante siano ormai le due del mattino del 4 febbraio.
Quando infine arrivano al posto di controllo della frontiera francese, ci sono parecchie persone che li aspettano ma il benvenuto dell’uomo al comando, il generale Pierre Brusart, è indimenticabile: “Se avessi voluto un uomo con gli occhiali, avrei chiesto un segretario” sbotta guardando Prouteau. In seguito instaureranno un particolare rapporto di amicizia, si rispetteranno e il generale si dimostrerà un uomo in grado di rivedere le proprie posizioni, ma in quel momento l’uomo al comando del GIGN si trova davanti un veterano dell’Indocina il cui snobismo militare è sintomo di un forte conservatorismo che potrebbe essere di ostacolo a Prouteau e ai suoi uomini. Il pragmatismo, per fortuna, riporta tutti sulle immediate priorità e la squadra del GIGN, i gendarmi e gli ufficiali della Legione si riuniscono intorno a una mappa per un nuovo aggiornamento. Sull’autobus oltre ai bambini ci sono due adulti, una assistente sociale, Jehanne, e l’autista, Jean-Michel Dupont, anche lui militare. I terroristi hanno mandato un messaggio rilasciando alcuni bambini: chiedono l’indipendenza immediata del Paese. Per Prouteau si tratta di una pessima notizia perché la richiesta è inequivocabilmente, totalmente irrealizzabile e denota una enorme difficoltà, se non impossibilità, per le negoziazioni che pensavano di portare avanti come primo piano risolutivo. Il GIGN è addestrato alla negoziazione, principalmente è uno dei mezzi che utilizzano per risolvere le operazioni, neutralizzando senza danni gli obiettivi. Alla negoziazione compromessa, si aggiunge il fatto che i terroristi sono palesemente sotto l’effetto del khat, uno stupefacente molto diffuso in quella zona d’Africa, e sono quindi soggetti a comportamenti imprevedibili e pericolosi.
Il piano di Brusart è lineare: il GIGN neutralizzerà gli obiettivi dopo aver ricevuto l’ok da parte di Parigi, mentre contemporaneamente il 2e REP si muoverà supportato dal 13e DBLE dotato di AML per raggiungere il bus e iniziare l’evacuazione dei bambini e l’eventuale assalto finale. Gli ostaggi saranno portati al punto di raccolta vicino al comando dove avverrà una evacuazione sanitaria in elicottero. Al seguito del 2e REP e degli AML del 13°, ci sarà anche un plotone del RIAOM che non interverrà se non in caso di copertura estrema.
Prouteau individua subito il punto più negativo del piano, cioè quella pausa che intercorre tra la neutralizzazione del GIGN e l’intervento della Legione; questa parte del piano, quel minuto di pausa tra la neutralizzazione e l’evacuazione, tendenzialmente fa affidamento sull’appoggio dei somali, sul fatto cioè che una volta neutralizzati i quattro terroristi, le forze di frontiera non interverranno. Il colonnello Brusart garantisce che non si andrà oltre il minuto, un minuto per far arrivare i veicoli al bus e liberare velocemente bambini e adulti: è credibile che i somali prendano in considerazione una azione che potrebbe essere definita a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra?
Potrebbe essere pericoloso, ma Prouteau confida anche nel suo rinnovato piano di azione: la neutralizzazione dei terroristi avverrà con un colpo simultaneo, una dinamica a cui si sono addestrati a lungo. Quattro colpi contemporanei, una sola detonazione, quattro terroristi morti. Un piano audace, che si basa anche su varie incognite, una su tutte il fatto se i terroristi saranno visibili tutti nello stesso momento. Il generale non sembra affatto convinto da questo piano, che reputa troppo audace e pericoloso per gli ostaggi: la fiducia tra tutti gli attori in campo non si è ancora saldata e c’è di mezzo anche la questione politica, quella dell’ok da Parigi che si rivelerà il più negativo tra tutti gli ostacoli.

 

L’autobus fermo a Loyada, foto pubblicata da Nimrod Edizioni

Messi tutti a conoscenza dei piani operativi, gli uomini al posto di frontiera si disperdono per attivarsi, mentre Prouteau decide di partire subito in perlustrazione. Insieme a Wodecki, il più vecchio del gruppo e secondo al comando, saranno portati da Dimeck, l’ufficiale di collegamento della GNA che più di tutti conosce il territorio, il più vicino possibile al bus per trovare un punto ottimale di tiro, mentre nel frattempo gli altri sette prepareranno l’equipaggiamento. I tre uomini in perlustrazione devono essere rapidi e invisibili nonostante la notte sia buia: non sanno quali dotazioni hanno i terroristi e l’invisibilità è il fattore chiave per la riuscita dell’operazione. A pochi metri dal posto di frontiera francese già corrono piegati in due e poi si trovano a strisciare sul terreno, in quello che sembra un percorso infinito. Prouteau analizza e assimila informazioni: i fucili che porteranno sulle spalle, assicurati con una cinghia, dovranno essere ben stretti per non fare rumore o danneggiarsi, dovranno avanzare a un ritmo sostenuto e non dovranno pensare a quello che la sabbia del deserto nasconde. Mentre Dimeck continua ad avanzare, Prouteau ha l’impressione che non troveranno mai un punto adatto per appostarsi in uno scenario simile: attraverso il visore notturno si rende conto che le possibilità di riparo sono ridottissime. Eppure il gendarme li porta, incredibilmente, a quasi 50 metri dal bus e ora lo vedono bene, messo di traverso tra loro e il posto di frontiera somalo da cui dei fari illuminano l’altra fiancata.  Wodecki e Prouteau osservano il bus e mentalmente prendono nota della posizione, della fiancata rivolta verso di loro, del numero di finestrini, soprattutto del numero di uomini: ce ne sono più di quattro, sono almeno otto gli uomini che hanno fatto dentro e fuori dal bus e uno di loro sta facendo avanti e indietro dal posto di frontiera somalo. Lì, dietro ai fari e alle costruzioni dei somali, si intravedono dei BRT40 per il trasporto truppe e questo non è un buon segno.
Questo contatto tra il terrorista e i soldati somali mette in allarme Prouteau, soprattutto perché l’uomo sta parlando con dei soldati all’interno di un BRT. Nonostante le rassicurazioni ufficiali del governo, ribadite da Brusart, se i terroristi avessero complici al posto di guardia l’operazione di recupero potrebbe essere ben più pericolosa di come si prospetta. Velocemente, rifanno marcia indietro, strisciando rapidi e allontanandosi dal bus, facendo un giro leggermente diverso che permette a Prouteau di vedere una piccola cresta del terreno, abbastanza sollevata da offrire un riparo per i tiratori e anche una buona angolazione per i fucili. Accanto alla cresta, a neanche sei metri, c’è un piccolo, striminzito e moribondo boschetto, così povero da ricordare più scheletri che alberi, ma c’è una palma e la copertura che offre è buona. Sarà quella la loro postazione.

 

Disposizione delle forze in campo

 

Il generale Brusart, dopo il rapporto sui terroristi e i somali, lo rassicura e a Prouteau sembra che la sua fiducia verso l’Eliseo sia incrollabile: i somali hanno garantito che non c’è nessun appoggio ai terroristi e Parigi ha garantito che è la verità. Mettere in dubbio Parigi? Mai. Non c’è verso che le preoccupazioni di Prouteau facciano effetto su Brusart, anche perché a un certo punto il tenente del GIGN deve arrendersi ad altri problemi: le ottiche notturne e le radio che hanno viaggiato in stiva hanno riportato dei danni, soprattutto le radio funzionano a intermittenza mentre le ottiche hanno subito un processo di condensazione interna e potrebbero risultare inservibili per un periodo di tempo troppo lungo.
Risulta sempre più chiaro che l’urgenza è quella di posizionarsi immediatamente nel punto individuato da Prouteau; l’alba sta per arrivare e non c’è tempo da perdere. Con un po’ di fortuna le ottiche notturne non serviranno, anche se il numero di uomini dentro e fuori dal bus è aumentato, ora sono otto e non più quattro, quindi non potranno doppiare i bersagli come previsto alla partenza. Ognuno di loro avrà un tiro a disposizione. La questione va valutata in fretta ma nel frattempo ci si muove. Al posto delle radio malmesse, il capitano Soubirou che parteciperà alle operazioni di supporto, recupera un apparecchio radio portatile, una TR PP11 con cui si terranno le comunicazioni con il posto di frontiera e attraverso cui arriverà l’ok al tiro.
Gli uomini del GIGN partono, un ventaglio di figure indistinte che si trascina con abilità sulla sabbia, strisciando gomiti e ginocchia,  mangiando la polvere. Fa ancora caldo, ci sono 26 gradi ma l’alba non è lontana e non lo è nemmeno quel caratteristico fenomeno del deserto che fa precipitare le temperature prima del sorgere del sole, causando una escursione termica da battere i denti.
Pronti all’azione, gli uomini si sistemano a raggiera dietro la cresta, in due file, i tiratori e i doppiatori che interverranno nel caso di bisogno. Prouteau e Laisney si sistemano a sei metri da loro, nascosti dalla base delle palme. In pochissimi minuti gli uomini sono in posizione di tiro: occhio nel mirino, presa salda, pronti a sparare da un momento all’altro, attenzione al massimo, tensione dosata. Il corpo è sensibile a tutto, soprattutto alle problematiche di quella condizione che non tardano a farsi sentire: la sabbia si solleva e si infila ovunque, causando un prurito difficile da gestire. Ci sono insetti e scorpioni che sbucano dalla sabbia e la fame, ora che sono immobili, inizia a farsi sentire. Non mangiano dal decollo a Parigi.
La prassi per il tiro congiunto è ben sperimentata, molto semplice ed efficace. Ogni uomo avrà un settore da tenere sotto controllo con il bersaglio al suo interno. Non esistono scambi di settore, una volta assegnato resta quello fino alla fine dell’operazione. Ad ogni tiratore è assegnato un codice numerico: una volta dato l’ordine del conteggio, il tiratore deve dire il proprio codice a voce alta solo se ha il bersaglio libero e inquadrato nel mirino all’interno del proprio settore. Così ad esempio, quando Prouteau darà il via alla procedura, il primo uomo dirà uno, il secondo due, e poi tre, finché qualcuno dirà NO per indicare l’impossibilità di tirare, facendo ricominciare da capo la procedura. Oppure il conteggio arriverà alla fine e Prouteau dirà Zero invece di “Fuoco”, una scelta fatta in virtù delle valutazioni psicologiche che raccontano dei problemi che, in una situazione simile, può implicare l’imposizione di fare fuoco.
Quando il conteggio arriverà allo zero, ogni uomo conterà mentalmente 333, per tre volte. Il 333 è una sequenza lunga un secondo, ripetuta per tre volte equivale a tre secondi, conteggiati in silenzio, all’unisono, senza bisogno di ulteriori comandi vocali. All’ultimo 3 ripetuto mentalmente, come un uomo solo, spareranno.
Così, all’alba del 4 febbraio 1976, inizia l’attesa.
Alle sei del mattino circa la temperatura crolla all’improvviso e gli uomini del GIGN devono fare uno sforzo fisico per non battere i denti, per smettere di tremare, continuando a tenere gli occhi sul mirino e la mano pronta. Prouteau li distrae facendo partire il conteggio.
Uno, due, no, dice il terzo. Allora si ricomincia di nuovo. Alla prima occasione in cui il conteggio arriva fino alla fine, Prouteau contatta via radio il posto di comando, avvisando che sono pronti al tiro, ma non arriva l’ok da Parigi. Si ricomincia con il conteggio. Tra le 6,30 e le 7,30 del mattino, Prouteau chiederà almeno quattro volte il permesso di tiro sugli obiettivi, tutti visibili dentro e nelle immediate vicinanze del bus. Infine si scopre il motivo del ritardo da parte di Parigi. L’ennesima complicazione è rappresentata dalla più alta carica dello Stato, il presidente in persona, che lontano migliaia di chilometri ha deciso di imporre dei limiti operativi al GIGN. Potranno sparare solo una volta, cioè quando un terrorista resterà solo nell’autobus. Una imposizione completamente assurda, quasi grottesca, tanto che Brusart, devoto alle istituzioni e alla gerarchia, vorrebbe esprimere il suo sconcerto a Prouteau, ma il grado, la situazione e l’onore non glielo permettono. Gli comunica via radio che Parigi non accetta altre soluzioni e che hanno l’ordine di sparare solo quando si verificherà la condizione imposta dal Presidente. Una condizione impossibile, soprattutto adesso che il GIGN si è reso conto che i terroristi sono più attivi e che qualcosa non va nei rapporti con i somali. Vedono alcuni dei dirottatori intrattenersi nel loro posto di comando, addirittura sedersi a un tavolo. Ma la linea di comando non si può spezzare e conviene aspettare, verificare se per un colpo di fortuna, le condizioni imposte si verificheranno in un modo o nell’altro.
Prouteau passa i nuovi ordini ai suoi uomini e lo spirito di adattamento non tarda a venire fuori, condito da battute e maledizioni. Come la selezione imponeva, questi uomini sono in grado di adattarsi e di valutare ogni punto di vista, ma sono anche in grado di andare oltre e prendere decisioni che per altri sarebbero impossibili. Far parte del GIGN richiede, paradossalmente, una certa attitudine al pensiero rivoluzionario, al rovesciamento del punto di vista normale per scoprire soluzioni anormali. Sottovoce gli uomini si scambiano osservazioni sugli scenari possibili, ma nella mente di Prouteau come in quella dei suoi uomini, si fa strada la convinzione che quelle condizioni per il tiro non si verificheranno mai e loro non potranno crearle in nessun modo: se anche riuscissero a neutralizzare un uomo dentro l’autobus, gli altri diventerebbero fattori non prevedibili estremamente pericolosi per la vita degli ostaggi.

 

Il personaggio di Prouteu nel film L’Intervention

Arriva il mattino e gli uomini sono ancora nella stessa posizione, stesi sotto il primo sole, pronti al tiro. L’affaticamento inizia a farsi sentire e presto anche la vista subirà un calo man mano che la luce diventerà più cruda e si rifletterà sulla superficie dell’autobus e sulla sabbia. Spuntano le prime gocce di sudore, il prurito è davvero intenso, la fame e la sete crescono. Dal confine somalo spunta una capretta, come un miraggio, che dall’orizzonte arriva saltellando dritta verso di loro, con un vecchio pastore che arranca dietro. Allarmati, gli uomini del GIGN sono pronti a reagire nel caso il pastore li veda e lanci l’allarme, ma chissà per quale combinazione del destino, la capretta si ferma a pochi metri da loro per poi tornare di corsa indietro, sgridata dal suo padrone che si allontana all’orizzonte. Un paio di ore dopo, il caldo si è fatto ancora ancora più intenso, si va verso i 40°C e l’effetto miraggio dentro l’obiettivo fa strizzare gli occhi agli uomini. Pierrot subisce un calo della vista, a cui probabilmente contribuisce anche la sabbia che asciuga e fa bruciare gli occhi. Dopo la capretta è la volta di un cane, che però stavolta non si allontana ma li raggiunge: è un buon cane africano, non abbaia ma annusa, pigro, quegli strani uomini stesi a terra con i muscoli doloranti, poi torna da dove era venuto.
All’ora di pranzo un veicolo della Gendarmerie si avvicina con cautela al bus. Il guidatore spegne il motore a pochi metri dagli ostaggi e passa ai terroristi dei contenitori di cibo e acqua. Sia il cibo che l’acqua, destinati ai bambini, sono drogati con un sonnifero che permetterà ai ragazzini di stare fermi e di non rappresentare più un ostacolo al momento dell’intervento. Una precauzione che si è resa necessaria perché per tutta la mattina Prouteau ha visto le testoline muoversi, i bambini alzarsi, scambiarsi di posto, mettersi sulla traiettoria di tiro in ogni settore. Gli uomini del GIGN non lo sanno, ma dentro, Jehanne ha fatto fare lezione ai bambini, stanchi, impauriti, ma obbedienti e rassicurati dall’affettuosa presenza di Jean-Michel, che con loro ha un rapporto speciale e riesce a calmare il terrore suscitato dagli imprevedibili scatti dei terroristi che non smettono di masticare furiosamente il khat.
Anche gli uomini del GIGN hanno fame, il caldo sta diventando insopportabile: nelle prime ore del pomeriggio il terreno toccherà i 52 gradi e hanno bisogno di idratarsi e mangiare. Si decide di far indietreggiare il più lontano del gruppo per andare a prendere dei rifornimenti. Con estrema accortezza, strisciando cautamente metro per metro, riuscirà ad andare e tornare con acqua e sardine, che mangeranno con esasperante lentezza e discrezione.

Sia al comando, che lì in mezzo al deserto, tutti sanno che sarà impossibile reggere a lungo questa situazione: gli uomini del GIGN sanno che nonostante il loro duro addestramento, il corpo ha dei limiti che a lungo andare vinceranno. La vista è messa a dura prova, Pierrot non sarà l’unico ad avere difficoltà visive e allo stesso modo la tensione muscolare porterà gli uomini allo sfinimento, con il rischio di fare errori in fase di tiro. Questa tensione del corpo, un fattore limitante e dannoso, il rischio sempre più alto di fallire man mano che le ore passano, sono fatti che si sommano alle incognite che si stanno velocemente moltiplicando, su tutti il comportamento sempre più agitato dei ribelli, forse per una mancanza o un eccesso di khat. Al posto di frontiera somalo, ferve una attività per certi versi incomprensibile, ma è evidente ormai che i ribelli non hanno problemi a interagire con i soldati dell’avamposto e con quelli sui BTR. Tra i mezzi a un certo punto è comparso anche un uomo bianco, che Prouteau giudica un europeo: si è messo a dare ordini a destra e sinistra, con un basco rosso in testa, palesemente a suo agio tra i somali e senza problemi di linguaggio. Nessun grado, nessun riconoscimento, la sua presenza è un mistero che alza vertiginosamente l’allarme mentale del gruppo. Le forze schierate lungo il confine somalo sono preoccupanti, non c’è più modo di aspettare.
Un nuovo conteggio nelle prime ore del pomeriggio li tiene concentrati: hanno il viso cotto dal sole e sono prossimi a una insolazione, gli occhi doloranti, la bocca, le orecchie e gli abiti pieni di sabbia, il corpo teso all’inverosimile, stanco. Le braccia e le spalle fanno male, la voglia di distendersi è pressante. Al campo base la stessa tensione si trasmette da uomo a uomo e la consapevolezza che i fattori negativi stanno aumentando preoccupa tutti, tranne Parigi, che non da segno di voler cambiare le sue direttive impossibili.
Prouteau, steso alla base di quella palma, gli occhi puntati sull’autobus e sugli uomini armati che si muovono intorno al veicolo, a un certo punto intravede una possibilità, una convergenza di fattori che portano i terroristi tutti sul veicolo, l’aria sonnolenta, la guardia abbassata, le teste a portata di tiro. Gli altri tre uomini sono spariti dalle parti del posto di frontiera somalo. Prouteau non può aspettare un’altra occasione, questo è il momento e questo va colto, probabilmente i terroristi non torneranno indietro vedendo i compagni abbattuti e la Legione avanzare di gran carriera. Soprattutto, spera che le forze somale non decidano di intervenire stravolgendo completamente le carte in tavola: sono l’unica incognita che in questo momento preoccupa gli uomini del GIGN e i motivi per diffidare dei somali sono più che validi.
Prouteau contatta il comando via radio, annuncia che sta per tirare, di tenersi pronti con il piano di evacuazione e il generale Brusart, ormai consumato anche lui dalle ultime cinque ore di immobilità totale e dalle quasi trentasei ore di crisi, garantisce il suo sostegno e avverte le unità di supporto che sono pronte in posizione.
Un minuto di silenzio, un minuto di realtà sospesa all’interno di ogni uomo presente, una realtà che sta per cambiare in maniera definitiva. Di nuovo il conteggio, portato fino alla fine, lo Zero di Prouteau e 333, 333, 333. Una detonazione singola e quasi inudibile fa esplodere simultaneamente il cervello ai cinque uomini sull’autobus. All’interno, l’assistente sociale sente il rumore di un vetro infranto, contemporaneamente accanto all’autista si accascia uno degli uomini e nel corridoio centrale, un altro scivola a terra senza un lamento. Uno sparisce dal vano della porta, un altro tra i sedili, l’ultimo sul fondo dell’autobus spruzza il sangue sulle pareti. Un tiro da manuale, sei pallottole (uno dei terroristi è stato doppiato) che filano a 840 metri al secondo verso i loro obiettivi. I bambini iniziano a svegliarsi, sono confusi e assonnati: a un minuto dal primo sparo, Jean-Michel, l’autista, che si trovava al posto di guida e sonnecchiava, si precipita verso l’interno dell’autobus spingendo i bambini al riparo sotto ai sedili, mentre fuori dal bus uno dei tre terroristi ancora in vita si accorge che qualcosa non va e inizia a correre con il suo MP44 in mano. Viene neutralizzato da uno degli uomini del GIGN prima che riesca ad avvicinarsi e, a questo punto, scoppia il caos.

 

Intervento finale a Loyada

 

Tra i soldati somali esplode l’agitazione e improvvisamente, un MG42 dal lato somalo spara i suoi 1800 colpi al minuto dritti verso il gruppo del GIGN. Pioggia di sabbia che graffia i volti come lame, Prouteau e i suoi, dopo il primo istante di assoluta sorpresa, devono stare immobili, consapevoli che il 2e REP non potrà mai avvicinarsi sotto una forza di tiro frontale di quel livello. I somali alla fine hanno deciso di attaccare e le paure di Prouteau si sono avverate: è una situazione infernale, allucinante, perché l’autobus è esattamente sulla traiettoria di tiro tra i somali e il GIGN e inizia a venire bersagliato di colpi con i bambini all’interno che ormai svegli urlano in preda al panico. Jehanne e Jean-Michel si buttano sui ragazzi cercando di spingerli sotto ai sedili, ma non c’è un punto particolarmente sicuro, i colpi arrivano ad ogni altezza e il pavimento del bus è scivoloso del sangue dei terroristi morti. Impossibile sollevare la testa e rispondere al fuoco, ma a un certo punto come nei migliori film di guerra, nel momento più drammatico arriva la cavalleria. Nel momento in cui l’MG42 smette di sparare ed entrano in azione le MP44, il tenente Andrieu e la sua 13a DBLE riversano una forza di fuoco sui somali con i loro fucili semiautomatici e le mitragliatrici, mentre da sinistra altri legionari iniziano ad avanzare e il GIGN finalmente può partecipare all’azione, ma dove sono le 4×4 per l’evacuazione? si domandano di sfuggita: sei fucili FRF1 iniziano a far saltare le teste al di là del blocco somalo ma nello stesso momento, sia il GIGN che il 2e REP e gli uomini del 13e DBLE vedono con sconcerto degli autoblindo che si posizionano alla frontiera iniziando a fare fuoco contro di loro. Un muro di colpi immobilizza i francesi, il rumore è assordante, la forza di fuoco è impenetrabile, piovono colpi come grandine e la situazione sembra precipitare in maniera irreparabile.
Nelle teste di tutti quanti si dissolvono domande che si formano rapidissime, senza risposta: perché a 3 minuti dal tiro simultaneo, la legione non è ancora arrivata in rinforzo, perché il governo francese ha aspettato tanto, perché i somali stanno aprendo il fuoco, perché non hanno scelto di intervenire quella mattina. Gli uomini del GIGN si sparpagliano, Grandil corre verso l’autobus con il suo FRF1, sparando contro i kalashnikov dei somali. Infine, ecco avanzare da dietro gli AML francesi che iniziano a bersagliare la frontiera somala: l’europeo che sembrava a capo delle forze di frontiera sparisce sotto i colpi, forse ucciso (ma non sarà mai trovato) e le forze somale iniziano a indietreggiare. Gli uomini del GIGN coprono l’avanzata mettendo a segno ogni tiro ma uno dei terroristi ancora vivi riesce a salire sull’autobus. Mentre fuori il combattimento ancora infuria, sebbene le distanze diventino via via più ampie, il terrorista agisce, stravolto da odio, rabbia, adrenalina e dal khat. Il ribelle si trova davanti David, un bambino di cinque anni che piange disperato e urla: con un colpo di fucile lo colpisce sulla testa, gli fa saltare un occhio e lo usa, incosciente, come scudo (David vivrà fino al 2014 ma si porterà dietro gravi danni alla testa). Il più vicino all’ingresso è il caporale Larking insieme a Dufour della gendarmerie e  Lemoine, legionario anche lui. Ma Larking ha una esitazione, in mano ha una mitraglietta che dentro l’autobus potrebbe causare una carneficina. Lo sa anche il terrorista, questo, l’ha valutato all’istante: lo guarda dall’interno e fa per ricaricare il suo MP44, ma dal retro del veicolo ecco Dufour che si avvicina alla velocità della luce e con un colpo di MR73 alla nuca, finisce il suo obiettivo nello stesso istante in cui Larking decide di sparare una serie di tre colpi tentando il tutto per tutto. Nel tempo in cui il terrorista diventa un cadavere, il suo dito di riflesso preme il grilletto e una serie di colpi a ventaglio affondano nelle pareti e nei sedili dell’autobus. Jean-Michel, l’autista, cerca di raggiungere Nadine, una bambina che in preda al panico è saltata sopra i sedili, ma viene colpito da più proiettili: sono pallottole dum dum che gli spappolano le gambe dalle ginocchia in giù. Nadine viene colpita al petto e muore nel giro di pochi secondi mentre un’altra bimba, Valerie, viene ferita gravemente. Morirà in ospedale.

Pian piano l’intensità dei colpi diminuisce, i somali si ritirano, i terroristi sono tutti morti e le forze francesi hanno raggiunto l’autobus, che viene messo in sicurezza mentre un numero sempre più altro di soldati francesi fa scudo contro la frontiera somala. Un altro minuto e gli scontri si riducono a colpi sporadici, dando il via libera all’evacuazione, che rapida e organizzata, può finalmente cominciare. Cautamente dai finestrini del bus si estraggono tutti i vivi mentre intorno all’autobus il muro protettivo di uomini è pronto a far fuoco: il portellone di coda viene divelto e Jean-Michel viene tirato fuori, le gambe a brandelli perse per sempre. Va via anche Nadine, vanno via il piccolo David con il viso deformato e la piccola Valerie, che non riprende conoscenza. Mentre i 4×4 evacuano a tutta velocità i vivi e i morti, si continua a sparare qualche colpo e si piange in silenzio.
A 8 minuti dal tiro simultaneo del GIGN, a 6 minuti fuori tempo rispetto al piano originale di evacuazione, l’operazione Loyada è conclusa. Un successo, diranno le autorità, un fallimento, scriveranno gli uomini del GIGN nelle loro memorie. E nel tempo, dopo il rientro a casa, ci sarà l’evoluzione politica, verranno le recriminazioni, ci saranno conti in sospeso da saldare.
Un anno dopo, Djibouti diventerà indipendente e la gran parte dei francesi lasceranno per sempre la regione.

 

FONTI E RISORSE

Per documentarmi sull’operazione Loyada, ho letto un libro e ne ho consultato un altro.
Gign : Nous étions les premiers, è un libro del 2017 scritto da Christian Prouteau e Jean-Luc Riva.
Les enfants de Loyada: La prise d’otages de Loyada et l’indépendance de Djibouti, è un libro di Jean-Luc Riva del 2017.
Su questa storia è uscito un film nel 2019, L’Intervention: La Naissance du GIGN, che si prende qualche licenza narrativa ma per il resto segue l’evoluzione reale dei fatti. Il film è molto godibile, riesce a raccontare in maniera semplice le sfumature della vicenda: il cameratismo, le rivalità tra le forze speciali in campo, le emozioni degli uomini e il contesto ambientale. Non è stato ancora distribuito in Italia ma si può trovare in inglese con il titolo 15 Minutes of War. Il film non è stato un successo al botteghino, ma lo consiglio per farsi una piccola cultura sul GIGN. Sempre sul GIGN e sulla storia di un altro intervento, incredibile e leggendario, c’è il film del 2011, L’assaut, L’Assalto, sempre dello stesso regista Julien Leclercq. Racconta i fatti del dirottamento del volo 8969 della Air France da Algeri nel 1994.
In questo video di YouTube, viene utilizzato un fucile FRF1 in una simulazione di quelli che furono i colpi del GIGN da quasi 200 metri di distanza. Per chi parla francese, qui un articolo con interviste ai sopravvissuti, oltre quaranta anni dopo mentre qui un buon articolo in inglese che parla anche dell’equipaggiamento e delle tecniche utilizzate dal GIGN contemporaneo.

 

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